VITTORIO SERENI

  

 

LA MALATTIA DELL’OLMO


Se ti importa che ancora sia estate

eccoti in riva al fiume l’albero squamarsi

delle foglie più deboli: roseogialli

petali di fiori sconosciuti

e a futura memoria i sempreverdi

immobili.


Ma più importa che la gente cammini in allegria

che corra al fiume la città e un gabbiano

avventuratosi sin qua si sfogli

in un lampo di candore.


Guidami tu, stella variabile, finché puoi…


e il giorno fonde le rive in miele e oro

le rifonde in un buio oleoso

fino al pullulare delle luci.

Scocca

da quel formicolio

un atomo ronzante, a colpo

sicuro mi centra

dove più punge e brucia.


Vienmi vicino, parlami, tenerezza,

dico voltandomi a una

vita fino a ieri a me prossima

oggi così lontana – scaccia

da me questo spino molesto,

la memoria:

non si sfama mai.


E’ fatto – mormora in risposta

nell’ultimo chiaro

quell’ombra – adesso dormi, riposa.


Mi hai

tolto l’aculeo, non

il suo fuoco – sospiro abbandonandomi a lei

in sogno con lei precipitando già.

 

(da Stella variabile, 1981)


***

 

LA SPIAGGIA


Sono andati via tutti -

Blaterava la voce dentro il ricevitore.

E poi, saputa: - Non torneranno più -


Ma oggi

Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato

Quelle toppe solari... Segnali

Di loro che partiti non erano affatto?

E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.


I morti non è quel che di giorno

In giorno va sprecato, ma quelle

Toppe di inesistenza, calce o cenere

Pronte a farsi movimento e luce.

Non

Dubitare, - m'investe della sua forza il mare -

Parleranno.


***

L’EQUIVOCO


Di là da un garrulo schermo di bambini

pareva a un tempo piangere e sorridermi.

Ma che mai voleva col suo sguardo

la bionda e luttuosa passeggera?

C’era tra noi il mio sguardo di rimando

e, appena sensibile, una voce:

amore – cantava – e risorta bellezza…

Cosí, divagando, la voce asseriva

e si smarriva su quelle

amare e dolci allèe di primavera.

Fu il lento barlume che a volte

vedemmo lambire il confine dei visi

e, nato appena, in povertà sfiorire.


***

ITALIANO IN GRECIA

Prima sera d’Atene, esteso addio

Dei convogli che filano ai tuoi lembi

Colmi di strazio nel lungo semibuio

Come un cordoglio

Ho lasciato l’estate sulle curve

E mare e deserto è il domani

Senza più stagioni

Europa Europa che mi guardi

Scendere inerme e assorto in un mio

Esile mito tra le schiere dei bruti

Sono un tuo figlio in fuga che non sa

Nemico se non la propria tristezza

O qualche rediviva tenerezza

Di laghi di fronde dietro i passi

Perduti

Sono vestito di polvere e sole

Vado a dannarmi a insabbiarmi per anni


(Pireo, agosto1942)


***

SETTEMBRE

Già l'olea fragrante nei giardini

d'amarezza ci punge: il lago un poco

si ritira da noi, scopre una spiaggia

d'aride cose,

di remi infranti, di reti strappate.

E il vento che illumina le vigne

già volge ai giorni fermi queste plaghe

da una dubbiosa brulicante estate.


Nella morte già certa

cammineremo con più coraggio,

andremo a lento guado coi cani

nell'onda che rotola minuta.


***

 

NEL SONNO

I.

Tardi, anche tu li hai uditi

quei passi che salivano alla morte

indrappellati

dall’ordine sparso di un settembre

dai suoi già freddi ori, per rientrare nell’ordine

chiuso, coatto, di tante domeniche premilitari

reinventandolo di fierezza e scherno

con tutta la forza del piede, con pudore

di cresimandi della storia,

su spalti, per poligoni di tiro,

comparse alla ribalta che poi vanno nel buio

e ancora tanta forza da bucare la raffica

spezzare muraglie sorvolare anni,

quei loro passi giunti fino a te.


II.

Per tutta la città, nelle strade

per poco ancora vuote un assiduo raschiare,

manifesti a brandelli, vanno a brani

le promesse di ieri e lungo i marciapiedi

è già il tritume delle cicale scoppiate.

Sceso all’incrocio un manovratore

lavora allo scambio con la sua spranga,

riavvia giorni e rumore.

Ecco i soli sconfitti, i veri vinti… –

anonima ammonisce una voce.


III.

Di schianto il braccio s’è abbattuto

e passa ad altri, piú forti,

la mano del vincitore.

Dirò che era giusto

e tenterò una compostezza

appena contraddetta dagli occhi folli.

Che presto saranno spenti.

Presto sullo sparato del decoro

il bruco del disonore…


IV.

Abboccherà il demente all’esca

dei ragazzi del bar?

Certo che abboccherà

e per un niente

nella sua nebbia si ritroverà

dalla parte del torto.

Lo picchieranno, dopo, piú di gusto.

C’era altro da fare delle domeniche?

I giornali attorno ai chioschi

garruli al vento primaverile:

viene un tale, canaglia in panni lindi,

su titoli e immagini avventa un suo cagnaccio.

La sporca politica

e noi sempre pronti a rifondere il danno,

Pantalone che paga –

e getta soldi all’accorso edicolante.

Approvazioni, intorno, risa.


V.

L’Italia, una sterminata domenica.

Le motorette portano l’estate

il malumore della festa finita.

Sfrecciò vano, ora è poco, l’ultimo pallone

e si perse: ma già

sfavilla la ruota vittoriosa.

E dopo, che fare delle domeniche?

Aizzare il cane, provocare il matto…

Non lo amo il mio tempo, non lo amo.

L’Italia dormirà con me.

In un giardino d’Emilia o Lombardia

sempre c’è uno come me

in sospetti e pensieri di colpa

tra il canto di un usignolo

e una spalliera di rose…


VI.

oppure

tra cave e marcite una coppia.

Area da costruzioni – con le case

qui giungeremo tra non molto.

E intanto finché dura

abbandoniamoci a questi finti prati.

Dove sei perduto amore

canta l’uomo alla ragazza

saltata oltre il terrapieno.

«Hai sempre il sole dalla tua» galante

continua a motteggiarla, ritrovandola

di là, capelli al vento gola giovane

anche piú bionda a quel ritorno di sole.

Ma poi, divisi dalla folla

separati passando tra la folla che non sa,

cosa vive di un giorno? di noi o di noi due?

Il distacco, l’andarsene

sul filo di una musica che è già d’altro tempo

guardando in ogni volto

e non sei tu.

Qui dunque si chiude la giovinezza,

su uno scambio di persona?

Ma sí, quella sfilata di tetti

quei balconi e terrazze

rapido ponte tra noi ogni mattina

e a sera lenta fuga…

già domani potresti abbandonarti

a un’altra onda di traffico, tentare

un diverso versante,

mutare gente e rione

e me su uno

di questi crolli del cuore, di queste repentine

radure di città lasciare

con l’amaro di una perdita

con quei passi di loro tardi uditi.

Solitudine, solo orgoglio…

Geme

da loro in noi nascosta una ferita

e le dà voce il vento dalla pianura,

l’impietra nelle lapidi.



***

OMBRA

Rieccovi accanto a me

Compagni miei morti in guerra

Oliva del tempo

Ricordi che ormai fate un ricordo solo

Come cento pelli fanno una sola pelliccia

Come queste migliaia di ferite fanno un solo articolo di giornale

Impalpabile e buia apparenza avete preso

La forma instabile della mia ombra

Un indiano in agguato per l'eternità

E ombra mi strisciate accanto

Ma non mi sentite più

Non conoscerete più i poemi divini che canto

Mentre io vi sento vi vedo ancora

Destini

Ombra multipla il sole vi conservi

Voi che tanto mi amate da non lasciarmi mai

E che ballate al sole senza far polvere

Ombra inchiostro del sole

Scrittura della mia luce

Cassone di rimpianti

Un dio che si umilia.


***

ANCORA SULLA STRADA DI ZENNA

Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.


***

IN ME IL TUO RICORDO


In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l'altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d'anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.


***

Andrò a ritroso della nostra corsa
di poco fa
che tanto bella mai ti sorprese la luna.
Mi resta una città prossima al sonno
di prima primavera.
O fuoco che ora tu sei
dileguante, o ceneri confuse
di campagna che annotta e si sfa,
o strido che sgretola l'aria
e insieme divide il mio cuore.

***

PERIFERIA 1940 da "Diario d'Algeria"

La giovinezza è tutta nella luce
d’una città al tramonto
dove straziato ed esule ogni suono
si spicca nel brusio.

E tu mia vita salvati se puoi
serba te stessa al futuro
passante e quelle parvenze sui ponti
nel baleno dei fari.



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