GIOVANNI GIUDICI


LA VITA IN VERSI

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro volere essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.


**

UMIDE LABBRA CHE DI ME AFFILATE


Umide labbra che di me affilate

Anima e senso – refe che si affila

Dita che mi stringete

Di qua di là tentando

Una cruna dolcezza della mente

Cui non serve destrezza o salda mira –

Midons che mi disfate e mi tessete

Nel liscio albergo della vostra sete

E trappola crudele

Dove fui preso un giorno seguitando

La vostra scia di miele –

E ancora sempre di voi sempre frugando

Il buco nella rete:

O giusto dove, o mio propizio quando


***


VIA STILICONE


Via Stilicone è a Milano una

Fra le vie più tristi che io conosca

Una fila di case e quasi niente

A confortarle dalla parte opposta


Dove vaneggiano alle notti

Di uno scalo e di un cimitero

Le luci delle sue finestre

Occhi di fatiscente impero


Come la fronte di chi stando

A un nudo tavolo altra fronte

Cerca a cui stringersi posarsi

Ma nessuna gli risponde


E giù si piega e si abbatte

Si fa cuscino delle braccia

Vuole scappare da se stesso

Sparire alla propria faccia


Strada uguale a dove sbando

Più ogni giorno o amica mia

Al Senzafondo al nome Morte

Che ha per compagna Follìa


Via Stilicone è a Milano la via

Più vulnerabile che io conosca

Una fila di case con paura

Del buio dalla fronte opposta


***

UNA SERA COME TANTE


Una sera come tante, e nuovamente

noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro

settimo piano, dopo i soliti urli

i bambini si sono addormentati,

e dorme anche il cucciolo i cui escrementi

un’altra volta nello studio abbiamo trovati.

Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.


Una sera come tante, e i miei proponimenti

intatti, in apparenza, come anni

or sono, anzi più chiari, più concreti:

scrivere versi cristiani in cui si mostri

che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;

due ore almeno ogni giorno per me;

basta con la bontà, qualche volta mentire.


Una sera come tante (quante ne resta a morire

di sere come questa?) e non tentato da nulla,

dico dal sonno, dalla voglia di bere,

o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,

né dalle mie impiegatizie frustrazioni:

mi ridomando, vorrei sapere,

se un giorno sarò meno stanco, se illusioni


siano le antiche speranze della salvezza;

o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente

la sorte di ogni altro, non volgare

letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,

senza né più virtù né giovinezza.

Potremmo avere domani una vita più semplice?

Ha un fine il nostro subire il presente?


Ma che si viva o si muoia è indifferente,

se private persone senza storia

siamo, lettori di giornali, spettatori

televisivi, utenti di servizi:

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene


qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.

È nostalgia di un futuro che mi estenua,

ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!

Da quanti anni non vedo un fiume in piena?

Da quanto in questa viltà ci assicura

la nostra disciplina senza percosse?

Da quanto ha nome bontà la paura?


Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura

che dice: domani, domani… pur sapendo

che il nostro domani era già ieri da sempre.

La verità chiedeva assai più semplici tempre.

Ride il tranquillo despota che lo sa:

mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.

C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.



***

DESCRIZIONE DELLA MIA MORTE


Poiché era ormai una questione di ore

Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,

Era arrivato l’avviso di presentarmi

Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.

L’avvenimento era importante ma non grave.

Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.


Ero il bambino che si accompagna dal dentista

E che si esorta: sii uomo, non è niente.

Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,

Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,

Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?

Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.


Andammo a piedi sul posto che non era

Quello che normalmente penso che dovrà essere,

Ma nel paese vicino al mio paese

Su due terrazze di costa guardanti a ponente.

C’era un bel sole non caldo, poca gente,

L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.


Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,

Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,

Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,

E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.

Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,

Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.


Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio

Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.

Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.

Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.

Era una specie di garrota o altro patibolo.

Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.


Sapevo che ero obbligato a non avere paura.

E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli

Domandando se mi avrebbero rasato

Come uno che vidi operato inutilmente.

La donna scosse la testa: non sarà niente,

Non è un problema, non faccia il bambino.


Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,

Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.

Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,

Che importa anche se era questione solo di ore.

C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.

Morire la mia vita non era naturale.


***

QUANDO PIEGA AL TERMINE

Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando

volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.

***

MI CHIEDI COSA VUOL DIRE

Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone

che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.

Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.

Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.

È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.


***


SEMBIANTE

Da molti mesi un mesto sogno

Avevo da raccontarti

Nel quale tu mi comparivi

E io temevo di guardarti

Non con il viso tuo di quando

Già sento un grigio di tempesta

Negli occhi sommersi e spenti

Nel tuo distrarre la testa

Verso il paese senza luogo

E al punto che mai sarà

Quel punto uguale al suo contrario

Dove è stretta la verità

Eri in un chiuso vano e alto

Avevi un viso di dolore

Tu mi guardavi mi parlavi

Ma non udivo le parole

Benché volevo accarezzarti

Supplicarti - non far così

Mi fai piangere, assomigli

Senza il sorriso ad Arletty

Perdona la mia paura

Mio solo grande peccato -

Per quell'inezia che divide

Ciò che non è da ciò che è stato

Ma le mie mani erano aria

Non ti potevano tenere -

Del sogno restò soltanto

Un sale di lacrime vere

Con te nel chiuso vano e alto

Da me volata via -

Io nel mio letto steso e stanco

Fra l'enigma e la bugìa


(Da "Lume dei tuoi misteri")


***

SOTTO IL VÒLTO


I sogni e i versi, detài da altre

Più sui che i altri – vol deventar.

Giacomo Noventa


I


Ci abituiamo presto ai nuovi muri

Ognuna dalla sua tana pensile

Scendono alle mani le cose vengono a noi

Io stesso gli occhi semichiusi al mattino

Da lunga insonnia solerte agli atti del rito

Moka al fornello metto a frutto l’intervallo

Teso all’imminente gorgogliare

Un uomo vecchio non è che una misera cosa

Albero spoglio del suo vanto – uscire

Al quotidiano ufficio rincasare

Reduce di pensosi negozi:

Dunque non troppe domande povero caro

Lasciatelo cogitare – lui solo

Sa ciò che è giusto

Remoto ieri, però eccomi oggi

Yesman completo – «sì, subito!» come una serva

Negli anni Trenta in casa di minimi impiegati

Povera più di tutti

I poveri innocua bestiola – macché poeta e poeta!

Risciacquo i piatti, ti aiuto a piegare un lenzuolo

La colpa è mia se non combacia agli orli


II


Avessi la sapienza

Non dico di Salomone ma almeno

Direi la calma perizia

Dei due che Sotto il Vòlto

Angelo per la paga, Lorenzo per passione

Apprestano un portone

Per questo ingresso vano al buio e al nulla

Murando uno lo stipite fissando i cardini e l’altro

Chiodando una lamiera al frusto legno

Riesumato da una sua campagna

Entrambi con fierezza dell’opera

Mossi da vivi gesti assunti in loro

Dal profondo di secoli vivranno

Per nuove mani d’opere venture


III


Misero è l’uomo che ha bisogno di soccorso

Misero chi si accorge

Quanto non vale ricchezza

Di immagini maestà di pensieri

Versata in libri di storia:

Avessi io gli atti infiniti

Del tuo lavoro a castigare la mia boria

«Io non sto bene ancora, non starò

Mai più bene» – è tardi per entrare

Dentro ogni gesto tuo di quarant’anni

Dove fu amore vero il trafficare

Ad accudirmi a farmi cena e pranzo

Tenuti a bada i figli per lasciarmi recitare

A me stesso una vita di romanzo

Io che pietà e conforto

Invoco adesso – io

Trascorso accanto a te come da morto

Vecchia moglie spremuta

Che interrogavi la tua angoscia muta:

Perché fossero mie

Tutte le tue poesie


(La Serra, 3-7 settembre 1992)


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