BILLY COLLINS
Sono lieto di aver resistito alla tentazione,
se tentazione era quando ero giovane,
di scrivere una poesia su un vecchio
che mangiava da solo a un tavolo
in un angolo di un ristorante cinese.
Avrei sbagliato tutto
pensando quel povero cane, senza un amico al mondo
e con solo un libro a tenergli compagnia.
Pagherà il conto con gli spiccioli del portamonete.
Sono lieto di aver aspettato tutti questi decenni
per annotare come sia calda e acida
questa zuppa calda e acida
qui da Chang questo pomeriggio
e come sia fredda la birra cinese
nel bicchiere ghiacciato.
E il mio libro – Cecità di José Saramago
guarda caso – è così avvincente che alzo lo sguardo
dal suo crescendo di orrori solo
quando sono colpito da una delle sue frasi che ti bloccano.
E dovrei ricordare la luce
che entra dalle grandi vetrate a quest’ora del giorno
e mette in corsivo ogni cosa che tocca:
i piatti, le teiere, le tovaglie immacolate,
così come i morbidi capelli bruni della cameriera
con la camicetta bianca e la corta gonna nera,
quella che ora sorride mentre porta una tazza di riso
e carne affumicata con aglio al mio tavolo preferito nell’angolo.
***
L’altro giorno mentre rimbalzavo lentamente
tra le pareti azzurre di questa stanza,
saltando dalla macchina da scrivere al piano,
dalla libreria a una busta caduta sul pavimento,
mi sono trovato nella sezione S del dizionario
dove i miei occhi sono caduti sulla parola Scoubidou.
Nessun biscotto sgranocchiato da un romanziere francese
avrebbe spedito qualcuno più in fretta nel passato –
un passato dove io stavo seduto a un tavolo in un campeggio
accanto a un profondo lago dell’Adirondack
imparando a intrecciare strisce sottili di plastica
in uno scoubidou, un regalo per mia madre.
Non avevo mai visto nessuno usare uno scoubidou
né indossarne uno, se è a questo che servono,
ma questo non mi trattenne dall’incrociare
filo con filo, e poi di nuovo,
fino a farne uno scoubidou
quadrato, bianco e rosso, per mia madre.
Lei mi diede la vita e il latte dal seno,
io le diedi uno scoubidou.
Si prendeva cura di me, quand’ero a letto ammalato:
mi avvicinava alle labbra cucchiai di medicine,
mi appoggiava alla fronte freddi panni bagnati,
poi mi portava fuori alla luce ariosa;
e mi insegnò a camminare e nuotare,
io in cambio le regalai uno scoubidou.
Ecco qui migliaia di pasti, disse,
ed ecco i vestiti e una buona scuola.
Ed ecco il tuo scoubidou, le risposi,
che ho fatto con l’aiuto dell’istruttore.
Ecco un corpo che respira e un cuore che batte,
gambe, ossa, denti forti,
e due occhi chiari per leggere il mondo, sussurrò.
Ed ecco, dissi, lo scoubidou, che ho fatto in campeggio.
Ed ecco, vorrei dirle ora,
un dono più piccolo – non l’antica verità
che non si può mai ripagare una madre,
ma la triste confessione che quando lei prese
lo scoubidou a due colori dalle mie mani,
ero certo come certo può essere un bambino
che quell’oggetto inutile e senza valore, che avevo intrecciato
per pura noia, bastava per pareggiare i conti.
***
Oggi passo il tempo a leggere
uno dei miei haiku preferiti,
a ripeterne e ripeterne le parole.
Sembra di mangiare
e tornare a mangiare
lo stesso piccolo chicco d’uva, perfetto.
Cammino per la casa recitandolo
e lascio che le sue lettere cadano
nell’aria di ogni stanza.
Sto accanto al grande silenzio del piano e lo dico.
Lo dico davanti a un quadro del mare.
Batto il suo ritmo su un vuoto scaffale.
Mi ascolto dirlo,
e lo dico senza ascoltarmi,
e lo ascolto senza dirlo.
E quando il cane guarda in su verso di me,
mi inginocchio sul pavimento
e lo sussurro in ciascuna delle sue lunghe orecchie bianche.
È quello sulla campana del tempio
di una tonnellata
con la falena che dorme sulla sua superficie,
e ogni volta che lo dico, sento l’atroce
pressione della falena
sulla superficie della campana di ferro.
Quando lo dico alla finestra,
la campana è il mondo
e io sono la falena che lì si riposa .
Quando lo dico allo specchio,
io sono la pesante campana
e la falena è la vita con le sue ali di carta.
E più tardi, quando te lo dico al buio,
tu sei la campana,
e io sono la lingua della campana, che ti fa suonare,
e la falena è volata via
dal suo verso
e si muove sul nostro letto come un cardine nell’aria.
***
Quando alla fine ci arriverò –
e ci vorranno molti giorni e molte notti –
mi piace pensare che ci saranno altri in attesa
e che vorranno perfino sapere com’era.
E così mi abbandonerò al ricordo di un cielo particolare
o di una donna con un accappatoio bianco
o della volta in cui ho visto uno stretto molto angusto
dove si era svolta una famosa battaglia navale.
Poi squadernerò su un tavolo
una grande mappa del mio mondo
e spiegherò al popolo del futuro
dagli abiti sbiaditi com’era –
come le montagne si alzavano tra le valli
e questa era detta geografia,
come le navi cariche di merci percorrevano i fiumi
e questo era detto commercio,
come il popolo di questa zona rosa
si spostava in questa zona verde chiaro
e come incendiava e uccideva chiunque trovasse
e questa era detta storia –
e loro ascolteranno, con lo sguardo gentile e in silenzio,
mentre altri arriveranno a unirsi al cerchio,
come onde che non si allontanano,
ma si muovono verso un sasso lanciato in uno stagno.
***
Mi sono accorto all’imbrunire
dopo aver acceso tre candele
e mentre mi versavo un bicchier di vino
di non aver rivolto parola ad anima viva per tutto il giorno.
Da solo in casa
ero stato occupato a far girare la ruota di una cartiera
o a osservare il fondo buio di un pozzo d’inchiostro:
nessuno che suonasse alla porta, nessuno squillo del telefono.
Ma mentre si accendevano le luci del vialetto,
mi è venuto in mente di avere detto due parole alla tartaruga
durante la passeggiata del mattino, un improvviso saluto
che l’ha fatta fuggire dal tronco e gettarsi nel lago.
Ho anche parlato ai pesci rossi
mentre buttavo una manciata di mangime nel laghetto,
e ho fatto una breve chiacchierata con la cagna,
che ha piegato la testa di qua e di là
quando le ho spiegato che mancano molte ore alla cena
e che avrebbe dovuto starsene sdraiata alla porta.
Ho anche parlato a me stesso mentre battevo a macchina
e più tardi mentre cercavo gli stivali.
In questo modo avevo messo solo il piede sul sentiero
che conduce alla grande villa del silenzio
dove uomini e donne camminano mentre contano i grani.
A dire il vero ho un pomeriggio soltanto
di totale silenzio di cui vantarmi,
un giorno di primavera, in una cella nel Big Sur,
con circa venti monaci pure in silenzio nelle celle accanto:
una comunità di camaldolesi,
un ordine tanto severo, mi disse la guida,
da far sembrare i benedettini,
dai quali di erano staccati nell’undicesimo secolo,
un gruppo di Hells Angels.
In una vita in cui ho parlato senza freni
e ho suonato senza sosta il clacson dell’ego,
solo un unico pomeriggio di vera quiete
su un’alta scogliera con il Pacifico steso là in basso,
ma sentendo il canto degli uccelli
dalla finestra quel giorno, potevo sentire la mia goccia
di silenzio gonfiarsi alla fontana
e poi cadere nel lavello di zinco della loro serenità.
Ma da allora:
nient’altro che il chiasso dell’auto-pubblicità.
il baccano di ristoranti rumorosi,
i proclami a lezione,
con il piccolo re della voce che deve sempre dire la sua,
e oggi l’orgoglio di scrivere questo,
motivo per cui la mia penna mi ha girato la schiena
per nascondersi la faccia fra le mani.
***
Il modo in cui la mia cagnetta
trotta fuori dalla porta ogni mattina
senza un cappello o un ombrello,
senza neanche un soldo
né le chiavi della cuccia
non manca mai di riempirmi la ciotola del cuore
di lattea ammirazione.
Chi può offrire miglior esempio
di una vita priva di orpelli -
Thoreau nella sua capanna senza tende
con un solo piatto, un solo cucchiaio?
Gandhi col bastone e gli occhialini?
Ecco che lei se ne va nel mondo reale
con nient'altro che il mantello marrone
e un modesto collare azzurro,
seguendo solo il suo naso bagnato,
portali gemelli del suo costante respiro,
seguita solo dal pennacchio della sua coda.
Se solo non cacciasse via il gatto
ogni mattina
e mangiasse tutto il suo cibo
quale modello di autocontrollo sarebbe,
quale esempio di distacco mondano.
Se solo non desiderasse così tanto
un massaggio dietro le orecchie,
non fosse così acrobatica nel dare il benvenuto,
se solo io non fossi il suo dio.
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